Cosenza, fa male andare in C ma ecco cosa spaventa per l'immediato e il futuro

Che una squadra di una città piccola o media possa retrocedere fa parte del gioco. È accaduto, e accade ancora oggi, anche a club di grande tradizione e blasone, provenienti da metropoli del nord e del sud d’Italia.
Non è, dunque, la caduta sportiva in sé a far male, a provocare sconcerto e rabbia nella piazza di Cosenza. Il dolore vero nasce dal modo in cui questa retrocessione è maturata: un crollo annunciato, arrivato in silenzio, come un destino già scritto, accompagnato da un distacco crescente tra società e città.
Non la sconfitta, ma il vuoto
Ciò che brucia è la mancanza di comunicazione, la totale assenza di trasparenza, la confusione nelle scelte tecniche e gestionali, e l'incapacità di costruire un rapporto di fiducia con la tifoseria. I problemi strutturali erano visibili da tempo, ma nessuno ha mai parlato chiaramente, nessuno ha mai provato a coinvolgere la città, a costruire un percorso condiviso, nemmeno quando tutto stava franando.
Il risultato? Una retrocessione che ha lasciato non solo tristezza, ma disillusione, in una comunità che non si è sentita parte del progetto, che ha visto allontanarsi la squadra giorno dopo giorno, fino a sentirla quasi estranea.
La responsabilità di chi guida
Il vero problema non è cadere, ma come si cade. La Serie C può essere una tappa, una fase, perfino un nuovo inizio. Ma per esserlo davvero, servono volti credibili, visione e dialogo. La piazza di Cosenza è viva, ha fame di calcio e di dignità sportiva, ma ha bisogno di fidarsi di chi la rappresenta.
Il momento più drammatico di questa stagione non è stato l’aritmetica retrocessione, ma l’indifferenza, il senso di abbandono, la frattura ormai evidente tra società e territorio. Per ripartire serve ricucire, ascoltare, spiegare. Solo così la Cosenza sportiva potrà davvero rialzarsi.